Chi intraprende la carriera dello Chef sogna di fare grandi cose.
Essere considerato un riferimento per la nuova generazione di …
La penna, sempre ispirata, di Licia Granello ha raccontato le prospettive di ripartenza che Gennaro Esposito intravede per la Torre del Saracino e, più in generale, per il mondo della ristorazione. Un viaggio tra pensieri e azioni compiuto “mano nella mano” con Licia sulle colonne di Repubblica Sapori (on line dal 21 aprile). Spunti di riflessione capaci di alimentare un dibattito sul futuro della cucina stellata.
Tratto da Repubblica Sapori – 21/04/2020
di Licia Granello
La rabbia e l’amarezza dello chef de La Torre del Saracino: “Ma in ogni caso d’ora in poi basta servizi troppo impostati che trasmettono un senso di freddezza.”
Gennaro Esposito è quanto di più lontano esista dalle future norme antivirali. Figlio non-figlio di Alfonso Iaccarino, è l’uomo che ne ha diffuso il verbo rivoluzionario, traslocando trent’anni fa la cucina campana – imbastardita da rucola e salmone o pietrificata al tempo della parmigiana della nonna – verso l’assoluta eccellenza creativa e sentimentale. Gli aggettivi non sono casuali. Perché creatività, modernità e contemporaneità gastronomica possono bastare altrove, ma non al sud, dove la cucina è intrisa di visceralità e sentimento. Una miscela esplosiva e magnifica, ma difficilmente conciliabile con l’asetticità chirurgica che verrà richiesta alla ristorazione di domani.
Non bastano la fama, le due stelle, un locale con pochi tavoli ben distanziati e una bella terrazza a disposizione di una clientela devotissima: condizioni che gli permetteranno di riaprire rapidamente e con successo. Gennaro Esposito, che incarna il concetto stesso di alta ristorazione verace, è arrabbiato, arrabbiatissimo.
“In questi giorni stiamo rifinendo la partenza del delivery nei locali di Londra, Milano e Ibiza. Metteremo in menù una ventina di piatti, vogliamo che ci si possa divertire scegliendo e gustando anche stando a casa. A Vico non è il caso: abbiamo circa 20.000 abitanti, i numeri sono troppo bassi per garantire un’offerta di qualità”. E intanto occorre tradurre in protocolli i ragionamenti sul futuro. “Era tanto che stavamo ragionando sui cambiamenti da attuare nella ristorazione. Il servizio, il modo di porsi, la liturgia di gesti e movimenti ereditata dai modelli classici mi stanno stretti. La Francia è quella che ci ha più condizionato in assoluto. Per carità, non rinnego niente: il loro è un modello di valore e noi abbiamo tutti imparato poco o tanto alla loro scuola. Negli anni siamo cresciuti, abbiamo preso delle direzioni originali. Ma mentre nel cibo abbiamo ribaltato quasi tutto, nel servizio c’è ancora un grande margine di cambiamento. Quanti sono i posti superstellati dove si esce sorridenti, alla fine di un pranzo o di una cena gioiosi? Basta cattedrali, basta servizi troppo impostati che trasmettono un senso di freddezza al cliente”.
Il virus ha rubato il tempo delle riflessioni. Adesso il cambiamento diventa obbligatorio, immediato, e forse non nella direzione immaginata.
“Purtroppo assolutamente no. Dobbiamo andare nella direzione opposta a quella che pensavamo. Volevo un servizio più caldo, accogliente, contagioso (passatemi la parola) direi. Nella cucina degli impiattamenti millimetrici, alcuni piatti non trovavano più posto. Sporzionare in sala un pollo ripieno, una teglia di lasagne richiede una mutua complicità dei clienti, la condivisione di un momento che vale per tutti. E invece dovremo fare il contrario. Ve lo vedete il cuoco o i camerieri tagliare e passare i piatti?”.
Un’analisi poco allegra.
“Peggio. Una prospettiva spettrale. Dobbiamo trovare la strada in un bosco pieno di paure. Il rischio è quello di snaturare il concetto stesso di ristorazione: la vera sfida è questa. La nostra clientela è per metà di persone che vengono due volte al mese, mentre gli altri vengono una volta l’anno. Tutti hanno bisogno di sentirsi accolti, coccolati, abbracciati dal posto e dai modi, oltre che dalla cucina”.
E quindi?
“Schermare i tavoli mi sembra una follia. Bisogna trovare una via d’uscita. Non possiamo diventare un presidio medico. E poi se è una coppia, che fanno: vengono insieme e poi li separo? Oppure pretendo che vengano con due macchine separate? Io ho otto tavoli, i miei clienti stanno in sicurezza. Ma il piatto te lo lancio, perché a un metro e mezzo non ci arrivo!”.
Avrà delle idee che le frullano in testa.
“Se conosci la storia, conosci il futuro. Ma qui come facciamo? Questo virus è molto più democratico del colera… In cucina ho dodici persone che lavorano. Posso anche mandarne via metà: ma al di là del dispiacere, della fatica doppia e dei guai per chi resta a casa, nella gestione non cambierebbe nulla, perché in cucina devi stare vicino per forza, noi non assembliamo pezzi di ricambio”.
Un dato di fatto che vale come un principio di ribellione.
“Magari faranno gli speakeasy come durante il Proibizionismo, con la gente che mangia vicino e si abbraccia… Se non c’è il piacere, che ci vieni a fare al ristorante? Si tolgano dalla testa il plexiglass. Io non lo metto. Piuttosto ospito un tavolo alla volta”.
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