Conferme, sorprese e l’anno che verrà
Bilanci e prospettive, un classico nel momento di passaggio da un …
Quando posso leggo qualcosa della sterminata letteratura riguardante il cibo, e, tra i tanti, ho letto un articolo nel quale si rivelava il fastidio dell’autore per la retorica che gira intorno al chilometro zero. E’ vero che qualcuno lo ha agitato come un totem imprescindibile, ricavandone qualche vantaggio promozionale per il proprio locale, ma mi sembra un peccato veniale se messo a confronto con la moltiplicazione dei templi del cibo veloce e dei grassi saturi o, soprattutto, con il plagio di eccellenze italiane, che coinvolgono migliaia di piccoli produttori anche consorziati, con nomi appena storpiati per non incorrere in problemi legali e cause risarcitorie. Poi, riguardo ai temi dell’identità e del territorio, se il modo di trattarli può sembrare consumato dalle numerose e continue ripetizioni, non si possono, altresì, confondere le cause con gli effetti, perché è indubitabile che il nostro Paese produca preziosità agro-alimentari in ogni contrada, proposte da sempre in ricette meravigliose. Infine, nello stesso articolo, per sottolineare le presunte contraddizioni dei fautori del chilometro zero, si affermava che non si dovrebbero usare in cucina nemmeno pomodori e patate, che non appartengono alla storia secolare della nostra agricoltura.
Il paradosso non sempre è aderente alla realtà, se penso al magnifico adattamento di quei prodotti al nostro clima e ai nostri terreni e se penso alla patata turchesa, alla bianca di Torriglia, alla patata di Reppia, alla quarantina della Val Trebbia, o al pomodoro San Marzano, al Corbarino, al fiaschetto di Torre Guaceto o alla regina di Torre Canne.
L’elenco potrebbe continuare per decine di pagine, così come i piatti tipici collegati, dal prebugiun di Ne, al frico, alla marocca di Casola o a uno dei simboli nel mondo della cucina italiana, la pizza, magari maltrattata troppo spesso, ma patrimonio immateriale Unesco.
A volte sarebbe meglio tacere.
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